Chi sei? Facci vedere la tua danza di Patrizia Giancotti
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Chi sei? Facci vedere la tua danza
di Patrizia Giancotti
\u201cQuando fai un passo, porta anche te stesso\u201d. Lo ripeteva spesso il danzatore del Mali che al centro del drums circle mostrava ai suoi allievi i movimenti alati che evocavano le savane e i grandi cieli d\u2019Africa in un garage di Trastevere. Non è poi così scontato. Avere coscienza del proprio corpo al punto di \u201caccompagnarlo\u201d ad ogni passo e non solo quando l\u2019esperienza del dolore lo porta improvvisamente alla ribalta. Come un giunco radicato e svettante, quel danzatore mostrava anche altri orizzonti: la nostra forma tangibile è uno strumento di connessione tra l\u2019uomo e ciò che lo trascende, può perfino mettersi al servizio della cancellazIone dell\u2019ego per esprimere direttamente l\u2019 \u201cessenza\u201d dell\u2019individuo.
Proprio come sentenziava lo Zarathustra di Nietzsche: \u201cDietro ai tuoi pensieri e sentimenti, fratello, sta un possente sovrano, un saggio ignoto, che si chiama Sé. Abita nel tuo corpo, è il tuo corpo. Vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore sapienza\u201d. E più verit anche. Quando nel corso di una lunga permanenza in Benin, mi avvicinai alle donne iniziate a Mami Wuata per presentarmi, non mi chiesero come ti chiami, da dove vieni, ma intimarono \u201c facci vedere la tua danza!\u201d. Il corpo avrebbe risposto a tutte le domande. Vestito, nudo? Ha la sua importanza.
Nel 1500 le navi di Cabral approdarono a porto Seguro e i marinai portoghesi, tutti bardati di ferro e cuoio, sporchi e con lunghe barbe incolte, rimasero stupefatti alla vista di quei corpi nudi e belli che venivano loro incontro. Lo scriveva il 29 aprile di quell\u2019anno Pero Vaz de Caminha nella Lettera sulla scoperta del Brasile, testimonianza del primo faccia a faccia tra amerindiani ed europei della storia. \u201cVanno nudi. Non si danno pensiero del mostrare le loro vergogne e lo fanno con la stessa innocenza che hanno nel mostrare il volto. Sono così aitanti e così ben fatti ed eleganti nelle loro tinture, che hanno un bell\u2019aspetto\u201d. I corpi parlarono anche agli indigeni. Pajé Itambé, cacique di Coroa Vermelha Porto Seguro, ricordò con me insieme all\u2019anziana madre, le impressioni di quell\u2019incontro tramandata fino a lui: \u201cPelosi, maleodoranti e soprattutto vestiti: non avevano mai visto gente così! Tra noi si copriva solo chi aveva qualcosa di brutto da nascondere: un difetto del corpo o dello spirito\u201d.
Qualcosa da nascondere c\u2019era di sicuro. Nell'inaccettabile progetto di distruzione in corso, il pensiero di Oswald de Andrade, datato 1925, ci indica ironicamente che avrebbe potuto anche andare diversamente: bQuando il portoghese arrivò, sotto una pioggia disastrosa, vestì l'indio. Che peccato! Fosse stata una mattina di sole, l'indio avrebbe spogliato il portoghese\u00bb. Stare nudi significa anche esporre la propria epidermide alla percezione dell'ambiente, avere con esso uno scambio continuo, significa ricordare quando nudi lo eravamo tutti. Perché il corpo ha una sua memoria inconsapevole, può custodire un gesto, un passo che neppure
sapevamo di conoscere e che forse non è nemmeno nostro, lo abbiamo ereditato. Il pittore Carybé riconosceva l'andatura angolana in una bionda di Bahia; la contessina Natasha, ci dice Tolstoj in bGuerra e pace\u00bb, esprimeva nella sua danza improvvisata tutto quello che c'era da sapere sull'anima popolare della Russia che non aveva mai conosciuto.
Movimenti che ci appartengono nonostante noi, di cui ci riappropriamo quando la mente lascia i comandi. Quasi estinti nell'Italia che con una mano tiene il telefono e con l'altra il bicchiere, ma immediatamente riconoscibili nel corpo di un bambino in una piazza della Calabria, quando il suo tacco batte il selciato come faceva suo nonno per svegliare i semi nella campagna, o in quello di una ragazza che si muove con la compostezza regale di chi porta una brocca sulla testa. Molto lontano dai rossetti e lustrini della Notte della taranta, il corpo di Maria di Nardò, la tarantata ripresa nel 1959 daIl'etnomusicologo
Diego Carpitella nel corso del cosiddetto esorcismo coreutico musicale, fa ancora vibrare fino a noi movimenti che affondano le loro radici tra i culti misterici dell'antichit e sono patrimonio popolare, espressione, sapienza, ristabiliscono la connessione con ciò che di sacro è in noi.
Ci fu un tempo in cui dei e uomini vivevano insieme in perfetta armonia, racconta un mito youruba, poi un errore umano ruppe l'incanto e il Dio supremo Olorum separò i due mondi per sempre. Una tremenda tristezza si abbatté sull'umanit, che aveva nostalgia del sacro, ma anche gli dei soffrivano terribilmente: avevano nostalgia del corpo. Tale fu la disperazione che Olorum s'impietosi e regalò agli uomini il tamburo. Suonandolo, gli uomini richiamano gli dei per farli danzare nei loro corpi ripristinando l'unit perduta. Tra ciò che di trascendente è in noi e la magnifica forma terrena di cui siamo dotati.
Articolo pubblicato il 13 settembre 2019 a pagina 41 nell\u2019inserto \u201cIl tempo delle donne\u201d del Corriere della Sera
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